proveniente da
Bari
uno studio della compagnia
Senza Piume
in collaborazione con
Centro Diaghilev
drammaturgia
Damiano Francesco Nirchio
regia
Anna de Giorgio, Damiano Francesco Nirchio
con
Alessio Genchi, Vincenzo Zampa
elementi scenici, luci e direzione tecnica
Tea Primiterra
costumi
Francesca Carannante
SINOSSI
Lontanissimo dall’essere un adattamento di Uomini e Topi, capolavoro di John Steinbeck, Home Run è un lavoro originale che rimette al centro della discussione il rapporto tra Lavoro e Uomo nel contesto sociale e culturale dell’Occidente, o comunque capitalistico, e quindi globale. I due amici fraterni non sono più alle prese, come nell’opera di Steinbeck, con il nomade lavoro stagionale nelle sterminate lande dell’America degli anni trenta, ma si ritrovano a fare letteralmente i conti con la precarietà fatta sistema della Gig Economy nelle strade di una grande città del Nord Italia.
Cenzo e Ale - i due personaggi che rubano i nomi, ma soprattutto l’età anagrafica, dai loro interpreti – sono due amici d’infanzia, un tempo ormai mitico, vissuto nel paesello di un Meridione evocato come il paradiso perduto, un Eden negato per sempre dopo il peccato inevitabile del passaggio all’età adulta. Cenzo e Ale hanno infatti circa trent’anni. Il primo è un fuoricorso alla facoltà di Economia e Commercio e per sopravvivere fa il rider per una nota multinazionale di food delivery. Il secondo è giunto da poche settimane in città, dopo la morte dell’unica zia che lo accudiva: un ragazzone tanto alto e imponente quanto semplice e infantile, forse affetto da una forma di ritardo mentale, che l’amico proverà a far lavorare come lavapiatti nel ristorante cinese appena aperto sotto casa.
I due vivono in affitto in una stanzetta con due letti nella stessa casa di un giovane rampollo della borghesia imprenditoriale locale, una specie di pied-a-terre garantito dai suoi ricchi genitori per i festini con gli amici o gli incontri con la fidanzata Samantha. Cenzo e Ale, metafora di tutta la loro generazione, sono in un cul de sac, ingranaggi di un meccanismo che basa il suo funzionamento su leggi naturali ed economiche vecchie come il mondo, in cui la sopravvivenza in quanto uomini e la consistenza dei loro diritti di cittadini e lavoratori sono ambedue categorie che condividono il destino tragico della crisi del concetto di prospettiva, futuro, progresso.
Lo stesso “lavoro” è diventato un “lavoretto”, una versione ridotta e ridicola di ciò che un tempo prometteva di essere strumento di riscatto dalla propria condizione, di crescita, esattamente come lo studio. Cenzo e Ale, destinatari di queste promesse, impattano in maniera tragica e deflagrante contro il tradimento dei tempi moderni che quelle promesse non mantengono: nessuna vita dorata è possibile o garantita oltre il sacrificio dell’emigrazione, dello studio, del lavoro; le poche economie messe faticosamente insieme dai due protagonisti servono appena per pagarsi la possibilità di continuare a procacciarsi quelle stesse economie, in un’assurda e ingabbiante circolarità.
Ma, come in Uomini e Topi, c’è un sogno che salva la vita e prova a dare un senso a quella asfittica routine: Cenzo e Ale sognano di mettere su, in un giorno di quel promesso futuro, un ristorantino casereccio dove poter ricreare (e offrire) frammenti genuini di quella felicità perduta, di quella casa che non è più fisicamente da nessuna parte: piatti di ceramica dipinti a mano, sedie di legno, olio, mozzarelle, pane caldo, la foto della zia che guarda benevola dalla parete, sono il “colpaccio da maestri”, il punto che segna la vittoria decisiva in una partita sofferta (l’Home Run, appunto), sono il mantra che a turno uno ripete all’altro per farsi coraggio, motivare lo scorrere dei giorni in balia di algoritmi delle app di food delivery, dell’umore dei datori di lavoro, dei vicini ostili e diffidenti e del padrone di casa: un coetaneo ricco e nullafacente amante del baseball.
È anche lui un trentenne, ma, diversamente dai suoi inquilini, appartenente a quella piccola parte di mondo che può godere degli effetti del lavoro altrui e che può ignorarne il valore: la sua età e la sua estrazione sociale caratterizzano un tipo umano la cui caratteristica principale è quella di non aver assistito, né tantomeno partecipato, al momento della semina del proprio benessere economico, ma di spartire gli esiti del raccolto. Solo evocato nei racconti reciproci di Cenzo e Ale, Jerry si aggira per casa con una mazza da baseball da collezione risalente agli anni sessanta e pagata, ironia della sorte, quanto un mese di affitto dei suoi inquilini: l’eco della sua dolce vita si mescolerà presto con quello della violenza che immancabilmente coltiverà nelle sue stanze private, nel suo rapporto con la nuova fidanzata che finirà per farne le spese.
Nelle quattro mura della stanza, e della casa, da cui i due non usciranno mai se non per andare a partecipare al meccanismo produttivo, si consuma l’ennesimo scontro tra pezzi diversi della società; “classi” si sarebbe detto un tempo, termine forse messo in soffitta un po’ troppo frettolosamente: quando il giovane borghese innescherà il meccanismo della tragedia tutto ciò che è “innocenza” non avrà scampo e pagherà col proprio sacrificio, nonostante i sogni ed i progetti coltivati, il prezzo della sopravvivenza del più forte.
Eppure, in questo schema apparentemente così deterministico e matematicamente asettico, gli innocenti - Cenzo, Ale, la povera Samantha - troveranno nell’esercizio ostinato dei legami d’amore, anche all’approssimarsi della Morte, la loro consacrazione ad eroi. Eroi già dimenticati del proprio tempo.
NOTE
"Da poche settimane avevo letto e voltato l’ultima pagina di Furore di J. Steinbeck riscoprendo, dopo quasi tre decenni dalla mia prima lettura, un testo sconvolgente nel suo essere umanissimo, politico e più che mai necessario alla decodifica dei nostri tempi. Finché, davanti ad un caffè, un amico - che poi sarebbe diventato uno dei due interpreti protagonisti di questo studio - mi ha fatto dono di Uomini e Topi dello stesso autore. Questa insistenza dell’autore statunitense a bussare idealmente alla mia porta mi è sembrata meritevole di ogni onore possibile, fino ad accarezzare l’idea di fare di questa piccola fiaba nera il punto di partenza per un testo teatrale calato nella contemporaneità. Dopo sole due settimane di lavoro – una specie di record personale – era già nato il testo di Home Run, in una forma che poco si discosta da quella che è poi confluita nel lavoro della scena.
Lo studio e l’approfondimento socioeconomico che si sono resi necessari per la stesura di questo testo, e la sua prima mise en space, si sono avvalsi della consulenza di Federico Martelloni, professore associato di Diritto del Lavoro dell’Università di Bologna, insieme ad altri studiosi dei cambiamenti del mondo del lavoro e dei diritti delle nuove categorie di lavoratori, in particolare di riders e food deliverers, e ai redattori della rivista on line Labour & Law Issues."
Damiano Francesco Nirchio
GIOVEDÌ 21 LUGLIO 22:00
VENERDÌ 22 LUGLIO 19:00